La leggenda delle due torri | ||
per ascoltare la leggenda... voce narrante Roberta Taino fonico Alessandro Cecchinato | ||
Non chiamatemi castello. Sono femmina. Femmina senza fronzoli e senza corona. Fatta per i guerrieri, non per i re. Le mie mura solide come i fianchi di una donna che sappia come usarli, le mie torri vi fissano interrogative, il mio ventre racchiude lance, frecce e catapulte. Qui si vive scomodo e in allerta. Notte e giorno. Sole o pioggia. Il nemico è alle porte. Sempre. Io proteggo. Sono la Rocca. La fortezza. L’ultimo baluardo. Vi farò male per proteggere chi amo. Offro il mio petto ad altre lance, frecce e catapulte. Io uccido. Sono fatta di terra, acqua e fuoco. Sono rossa, rossa come la terra dei miei mattoni, rossa come a solo poche donne è concesso essere. Terra della mia terra: argilla di ferro sgrossata da sassi, vermi e radici. Sono l’umido della mia nebbia, l’acqua del mio fiume e dei miei fossati, sono le lacrime della pioggia che scorre fino al seme del campo. Non sono di pietra, sono materia viva plasmata da mano di uomo. I mattoni di cui sono fatta hanno attraversato il fuoco della fornace, o quello dell’inferno, che tanto è uguale.
Ho vissuto mille vite: sono stata pericolosa quanto rassicurante, molte volte violata e umiliata. Mai arresa. Sotto alla mia cintura di mattoni ho visto passare truppe di nemici in un tempo che si mischia e mescola nel lento scorrere dei secoli. Ridotta a legnaia, preda di muschi e di rampicanti, sono stata depredata, sventrata e stravolta, poi di nuovo puntellata, aggiustata, risorta. Non sono comoda, né condiscendente: hanno provato ad addomesticarmi, a fingere che fossi una reggia per abitarci, ma non lo sono. Peggio per loro. C’è chi ha conosciuto le mie segrete e non è più riemerso, c’è chi è stato alla catena desiderando per fame di sbranare una di quelle pantegane che di loro si facevan beffe. No, non conosco clemenza con chi mi è ostile, ma sono angelo e difensore per i miei.
Ho torri maschio taglienti d’angoli. Delle mie quattro solo una è femmina di curve, mistero e di una spirale che porta al cielo. Della Torre Cilindrica e della Torre del Capitano, posso narrare la vera storia:
Lui era Capitano di ventura, giovane, affascinante e di nobili lombi, inviato da Milano a governare le mie mura e a presidiare le truppe contro il nemico. Lo chiameremo Valente, se pur lavorando di fantasia, perché il suo nome andò perduto insieme al suo senno, a causa di un amore svanito troppo presto. Lei, Nives era nata in una notte di neve, candida come i fiocchi che le avevano dato in dono una bellezza fuori dal comune. Al giorno d’oggi chiamereste la sua rara beltà come un difetto, ma allora nulla si sapeva di quella malattia. Nives aveva pelle di latte, capelli ricci di un bianco abbagliante e due laghi ghiacciati per occhi. La sua carnagione era così delicata che anche un timido raggio di sole lasciava profonde bruciature sul suo corpo, così che la giovane era costretta a indossare in ogni stagione un ampio mantello scuro. Il padre non le permetteva di uscire durante il giorno, per timore che si scottasse, così la ragazza, terminati gli anni dell’infanzia passati nella solitudine delle quattro mura, iniziò ad uscire la notte, quando tutti nella sua casa dormivano. Non temeva il buio, che sentiva come amico e protettore, così nel cuore della notte si spingeva in passeggiate che si fecero col tempo sempre più lunghe e ardite. Le piaceva osservare il cielo, la luce debole e fredda delle stelle e quella meravigliosamente argentea della luna, che l’attirava come fosse cosa sua. Proprio in una notte di plenilunio, persa nel suo ragionare, si ritrovò senza volere lungo i miei camminamenti. Di solito li evitava con cura, perché sapeva che i soldati montavano di guardia giorno e notte. Troppo tardi. «Chi va là?» gridò la ronda. Nemmeno il tempo di rispondere che le guardie la portarono da me, con l’intenzione di segregarla. Il Capitano Valente, allenato a dormire con un occhio aperto e le orecchie tese come si fa sul campo di battaglia, udito il trambusto a quell’ora insolita, si levò dal talamo e buttatosi addosso qualcosa alla bell’e meglio andò incontro ai due soldati che reggevano nel mezzo una figura mingherlina avvolta in una cappa. Temendo si trattasse di un ragazzino mandato dal nemico a far da spia oltre le difese, il Capitano si avventò sulla povera malcapitata, levandole il cappuccio in malo modo.
L’amore fu questione del primo sguardo: l’immediato riconoscersi l’uno nell’altra, come trovarsi di fronte a uno specchio che riflette l’anima.
I due giovani erano già innamorati ancor prima di parlarsi. Il Capitano che nessun nemico riusciva a intimorire si sentì morire davanti a quegli occhi glaciali, avvampò imbarazzato per il gesto violento che aveva compiuto e per il suo abbigliamento davvero approssimativo. «Lasciatemi solo con la prigioniera» disse cercando di recuperare il suo contegno «...e portatemi un mantello, che si gela qui fuori!».
Ripresa la sua dignità, Valente a cui il cuore sembrava andare a briglia sciolta, tentò di tranquillizzare Nives, che non sapeva più distinguere la paura dal turbamento di trovarsi vicino al giovane più bello che mai avesse incontrato. «Chi sei?» le chiese cercando di soffocare i tamburi che aveva in petto: «Perché una ragazza va sola di notte in così grande periglio?». Nives non fece menzione della sua pelle delicata, di cui tanto si vergognava e rispose d’istinto «Io non sono nessuno». Il Capitano scosse la testa dicendo: «Non ho mai conosciuto nessuno di così importante».
Nives raccontò di essere uscita perché non riusciva a prendere sonno a causa della luna che inondava di luce il suo giaciglio. I due passarono il resto della notte a confidarsi le loro vicende e parve loro di conoscersi da sempre e non solo da qualche ora. Alle prime luci dell’alba Nives disse: «Devo andare ora, mio padre sta per destarsi, si preoccuperà della mia assenza e si infurierebbe se sapesse che ho disturbato addirittura il Castellano». Valente si fece giurare e spergiurare che l’avrebbe rivista subito, qualche ora innanzi nel giorno e che sarebbe venuto lui stesso a presentarsi a suo padre, con promessa di matrimonio. Nives a queste parole fu piena di gioia. Si accordarono per il mezzogiorno e la ragazza rientrò a casa volando. Dell’accaduto non fece parola con genitori e fratelli, annunciò solo che una gran visita li aspettava quel giorno. Passò il resto della mattinata ad acconciarsi i capelli, intrecciandoli di margherite e fiordalisi del colore dei suoi occhi e chiese in prestito alla sorella una veste di garza leggera, l’abito più bello che la famiglia possedeva. All’ora concordata il Capitano Valente con tutta la scorta di cavalli e cavalieri, si presentò alla porta del padre di Nives, che quasi si prese un colpo per quel putiferio. Non vi dico che espressione assunse il suo volto, quando Valente gli disse ciò che aveva da dire: il pover’uomo si fece più slavato della figlia. Nives era lì in pieno sole, bella e agghindata come una sposa, nell’estasi di quelle parole. Nessuno s’era accorto da quanto fosse lì. Lei troppo colma d’amore non distingueva più il calore del cuore, da quello che il sole stava portando al suo candore. La sventurata svenne, ardente di febbre a causa di piaghe e scottature e dopo due giorni d’agonia, se ne andò per sempre dalla terra che aveva conosciuto solo di notte. Valente impazzì di dolore.
Si dice e io ne sono testimone che diede disposizione che il funerale di Nives avvenisse in quella ultima notte di luna piena e che la ragazza fosse sepolta nella stanza segreta della torre Cilindrica, di fronte alla sua Torre del Capitano.
Di lui non si ebbe più alcuna notizia: si disse che sparì col suo dolore, gettandosi dagli spalti e io qui tacerò per pudore. Sappiate solo che nella mia torre Maschio e in quella Femmina vivono i cuori di due innamorati che mai si lasciarono dal giorno in cui si riconobbero.
E se ci fate caso, da allora la luna piena non tramonta più all’orizzonte, ma ogni mese si infila nella torre Cilindrica dal lumachino a illuminare il giaciglio della bella Nives, mentre dal profondo della Torre del Capitano viene il canto di un uomo innamorato.
Così io porto dentro di me il loro amore, il loro ricordo e li proteggo.
Le torri, i cavalli e donna muovono insieme sulla scacchiera a difesa del mio cuore. Dovessi essere ridotta in polvere e sciogliermi fra le lacrime tornerei a dar da mangiare ai fiori, alle margherite e ai fiordalisi, ai campi verdi, alla corteccia di platani e pioppi, con la forza che ho dentro di me.
Perché io proteggo.
Anna Martinenghi