"Io proteggo" Anna Martinenghi | ||
per ascoltare il racconto... voce narrante Roberta Taino fonico Alessandro Cecchinato | ||
“Il racconto che segue è dedicato alla Rocca Sforzesca di Soncino, a lei - che io guardo da sempre come fosse di carne e sangue - è liberamente ispirato. Trattandosi di un gioco di cuore e fantasia, in molti punti è irrispettoso della storia e dei fatti realmente accaduti. Per questo e per la presunzione di aver narrato una leggenda, a tutti chiedo venia”. Anna Martinenghi
Non chiamatemi castello.
Sono femmina. Femmina senza fronzoli e senza corona. Fatta per i guerrieri, non per i re. Le mie mura solide come i fianchi di una donna che sappia come usarli, le mie torri vi fissano interrogative, il mio ventre racchiude lance, frecce e catapulte. Non so che farmene di principi azzurri e di vissero felici e contenti. Qui si vive scomodo e in allerta. Notte e giorno. Sole o pioggia. Il nemico è alle porte. Sempre.
Io proteggo.
Sono la Rocca.
La fortezza.
L’ultimo baluardo.
Vi farò male per proteggere chi amo.
Offro il mio petto ad altre lance, frecce e catapulte.
Io uccido.
Sono fatta di terra, acqua e fuoco. Sono rossa, rossa come la terra dei miei mattoni, rossa come a solo poche donne è concesso essere. Terra della mia terra: argilla di ferro sgrossata da sassi, vermi e radici. Sono l’umido della mia nebbia, l’acqua del mio fiume e dei miei fossati, sono le lacrime della pioggia che scorre fino al seme del campo. Non sono di pietra, sono materia viva plasmata da mano di uomo. I mattoni di cui sono fatta hanno attraversato il fuoco della fornace, o quello dell’inferno, che tanto è uguale. Si sono abituati subito a ciò che li aspettava. Altro fuoco di pece rovente, di meteore ardenti, altro fuoco di uomini biliosi.
Eccomi qui. Sfidate le mie mura se volete. Vi vedrò arrivare da lontano, anche di notte. Sentirò il vostro odore, il battito dei vostri cuori, sentirò la vostra paura. Io non ne ho. Io proteggo. Anche se dovessi cadere, andare in pezzi, tornare terra alla terra, acqua al fiume, fuoco all’inferno, la mia gente mi ricostruirà nuova, rossa, più imponente. Perché qui non si ha paura nemmeno di morire. “Ancora non mi dispero” dicono loro. Ancora non mi dispero dico io.
Ho vissuto mille vite: sono stata pericolosa quanto rassicurante, molte volte violata e umiliata. Mai arresa. Sotto alla mia cintura di mattoni ho visto passare truppe di nemici e di turisti tutti a testa in su, in un tempo che si mischia e mescola nel lento scorrere dei secoli. Ridotta a legnaia, preda di muschi e dei rampicanti scassinatori. Sono stata depredata, sventrata e stravolta, poi di nuovo puntellata, aggiustata, risorta.
Non sono comoda, né condiscendente: hanno provato ad addomesticarmi, a fingere che fossi una reggia per abitarci, ma non lo sono. Peggio per loro. C’è chi ha conosciuto le mie segrete e non è più riemerso, c’è chi è stato alla catena desiderando per fame di sbranare una di quelle pantegane che di loro si facevan beffe. No, non conosco clemenza con chi mi è ostile, ma sono angelo e difensore per i miei.
So di sole e so di pioggia. Ho imparato le lingue di chi mi ha conquistato, ne ho fatto il mio Esperanto, la parlata dolce e diffidente che tutti include, ma che premia solo chi capisce ciò che taccio. Conosco le vostre lacrime, il suono delle vostre risate e tutto conservo. Ho sentito il tocco delle campane a lutto e visto i fuochi d’artificio delle sere di gioia. Sono generosa con i bambini che mi usano per i loro giochi. Riconosco il loro bisogno di autenticità anche se hanno spade di legno, il desiderio che qualcosa accada, la voglia di essere parte di una storia vera: la loro. Per questo lo svolazzo di un pipistrello nelle prigioni, uno scricchiolio improvviso, il destarsi pigro dei barbagianni col loro sguardo cieco nelle ultime luci, li spaventa ed elettrizza di grida d’argento.
Ho torri maschio taglienti d’angoli. Delle mie quattro solo una è femmina di curve, mistero e di una spirale che porta al cielo. Della Torre Cilindrica e della Torre del Capitano, posso narrare la vera storia: lui era Capitano di ventura, giovane, affascinante e di nobili lombi, inviato da Milano a governare le mie mura e a presidiare le truppe contro il nemico. Lo chiameremo Valente, se pur lavorando di fantasia, perché il suo nome andò perduto insieme al suo senno, a causa di un amore svanito troppo presto. Lei, Nives era nata in una notte di neve, candida come i fiocchi che le avevano dato in dono una bellezza fuori dal comune. Al giorno d’oggi chiamereste la sua rara beltà come un difetto, ma allora nulla si sapeva di quella malattia. Nives aveva pelle di latte, capelli ricci di un bianco abbagliante e due laghi ghiacciati per occhi. La sua carnagione era così delicata che anche un timido raggio di sole lasciava profonde bruciature sul suo corpo, così che la giovane era costretta a indossare in ogni stagione un ampio mantello scuro. Il padre non le permetteva di uscire durante il giorno, per timore che si scottasse, così la ragazza, terminati gli anni dell’infanzia passati nella solitudine delle quattro mura, iniziò ad uscire la notte, quando tutti nella sua casa dormivano. Non temeva il buio, che sentiva come amico e protettore, così nel cuore della notte si spingeva in passeggiate che si fecero col tempo sempre più lunghe e ardite. Le piaceva osservare il cielo, la luce debole e fredda delle stelle e quella meravigliosamente argentea della luna, che l’attirava come fosse cosa sua. Proprio in una notte di plenilunio, persa nel suo ragionare, si ritrovò senza volere lungo i miei camminamenti. Di solito li evitava con cura, perché sapeva che i soldati montavano di guardia giorno e notte. Troppo tardi. «Chi va là?» gridò la ronda. Nemmeno il tempo di rispondere che le guardie la portarono da me, con l’intenzione di segregarla. Il Capitano Valente, allenato a dormire con un occhio aperto e le orecchie tese come si fa sul campo di battaglia, udito il trambusto a quell’ora insolita, si levò dal talamo e buttatosi addosso qualcosa alla bell’e meglio andò incontro ai due soldati che reggevano nel mezzo una figura mingherlina avvolta in una cappa. Temendo si trattasse di un ragazzino mandato dal nemico a far da spia oltre le difese, il Capitano si avventò sulla povera malcapitata, levandole il cappuccio in malo modo. L’amore fu questione del primo sguardo: l’immediato riconoscersi l’uno nell’altra, come trovarsi di fronte a uno specchio che riflette l’anima.
I due giovani erano già innamorati ancor prima di parlarsi. Il Capitano che nessun nemico riusciva a intimorire si sentì morire davanti a quegli occhi glaciali, avvampò imbarazzato per il gesto violento che aveva compiuto e per il suo abbigliamento davvero approssimativo. «Lasciatemi solo con la prigioniera» disse cercando di recuperare il suo contegno «...e portatemi un mantello, che si gela qui fuori!».
Ripresa la sua dignità, Valente a cui il cuore sembrava andare a briglia sciolta, tentò di tranquillizzare Nives, che non sapeva più distinguere la paura dal turbamento di trovarsi vicino al giovane più bello che mai avesse incontrato. «Chi sei?» le chiese cercando di soffocare i tamburi che aveva in petto: «Perché una ragazza va sola di notte in così grande periglio?». Nives non fece menzione della sua pelle delicata, di cui tanto si vergognava e rispose d’istinto «Io non sono nessuno». Il Capitano scosse la testa dicendo: «Non ho mai conosciuto nessuno di così importante».
Nives raccontò di essere uscita perché non riusciva a prendere sonno a causa della luna che inondava di luce il suo giaciglio. I due passarono il resto della notte a confidarsi le loro vicende e parve loro di conoscersi da sempre e non solo da qualche ora. Alle prime luci dell’alba Nives disse: «Devo andare ora, mio padre sta per destarsi, si preoccuperà della mia assenza e si infurierebbe se sapesse che ho disturbato addirittura il Castellano». Valente si fece giurare e spergiurare che l’avrebbe rivista subito, qualche ora innanzi nel giorno e che sarebbe venuto lui stesso a presentarsi a suo padre, con promessa di matrimonio. Nives a queste parole fu piena di gioia. Si accordarono per il mezzogiorno e la ragazza rientrò a casa volando. Dell’accaduto non fece parola con genitori e fratelli, annunciò solo che una gran visita li aspettava quel giorno. Passò il resto della mattinata ad acconciarsi i capelli, intrecciandoli di margherite e fiordalisi del colore dei suoi occhi e chiese in prestito alla sorella una veste di garza leggera, l’abito più bello che la famiglia possedeva. All’ora concordata il Capitano Valente con tutta la scorta di cavalli e cavalieri, si presentò alla porta del padre di Nives, che quasi si prese un colpo per quel putiferio. Non vi dico che espressione assunse il suo volto, quando Valente gli disse ciò che aveva da dire: il pover’uomo si fece più slavato della figlia. Nives era lì in pieno sole, bella e agghindata come una sposa, nell’estasi di quelle parole. Nessuno s’era accorto da quanto fosse lì. Lei troppo colma d’amore non distingueva più il calore del cuore, da quello che il sole stava portando al suo candore. La sventurata svenne, ardente di febbre a causa di piaghe e scottature e dopo due giorni d’agonia, se ne andò per sempre dalla terra che aveva conosciuto solo di notte. Valente impazzì di dolore. Si dice e io ne sono testimone che diede disposizione che il funerale di Nives avvenisse in quella ultima notte di luna piena e che la ragazza fosse sepolta nella stanza segreta della torre Cilindrica, di fronte alla sua Torre del Capitano. Di lui non si ebbe più alcuna notizia: si disse che sparì col suo dolore, gettandosi dagli spalti e io qui tacerò per pudore. Sappiate solo che nella mia torre Maschio e in quella Femmina vivono i cuori di due innamorati che mai si lasciarono dal giorno in cui si riconobbero. E se ci fate caso, da allora la luna piena non tramonta più all’orizzonte, ma ogni mese si infila nella torre Cilindrica dal lumachino a illuminare il giaciglio della bella Nives, mentre dal profondo della Torre del Capitano viene il canto di un uomo innamorato.
Così io porto dentro di me il loro amore, il loro ricordo e li proteggo. Le torri, i cavalli e donna muovono insieme sulla scacchiera a difesa del mio cuore. Dovessi essere ridotta in polvere e sciogliermi fra le lacrime tornerei a dar da mangiare ai fiori, alle margherite e ai fiordalisi, ai campi verdi, alla corteccia di platani e pioppi, con la forza che ho dentro di me.
E come posso aprire le mie braccia di argilla, spalancare le mie porte, lisciare il pelo ai gatti e lasciar riposare piccioni e colombi, così posso chiudermi. Sono una scatola cinese -no, non fatela anche voi la solita battuta, ho ucciso per molto meno! -: mi stringo oltre le mie fossa, isolo le mie corti, sprango i miei levatoi, alzo le mie difese, mi faccio ostrica attorno alla perla.
Io proteggo.
E se non bastasse lascerò libero chi amo lungo percorsi segreti che mi attraversano. Svelo i miei punti di fuga solo a chi si fida del tutto di me, mi lascio attraversare fin negli angoli più reconditi, stretti per l’amor del cielo, claustrofobici, ma liberatori. Solo chi li attraversa riuscirà a togliersi d’assedio, guadagnando la via fino al luogo delle Grazie. Poi vuota e comunque vittoriosa mi offrirò a chi vuole incendiare le mie ossa e mentre brucio sorriderò soddisfatta perché io proteggo.
Ho visto i soldati morire e gli amanti baciarsi sui miei spalti.
Io proteggo.
So mantenere i segreti nelle mie viscere, rapire pezzi di cielo stellato fra le mie mura e poi lasciarli alle notti d’estate, so guardare l’orizzonte dall’alto delle mie torri, farmi piccola e poi enorme, accogliente e crudele.
Ho conosciuto la guerra, il ghiaccio dell’inverno, le sere crude di nebbia, ma in tempi di pace sono luogo di mille incontri: cercatemi negli album di nozze della mia gente, nelle gite della domenica, nelle danze del carnevale, nelle notti di Ognissanti. So proteggere tutte le inclinazioni del sentire, perché ho imparato che l’odio del nemico può scomparire, sommerso dall’affetto di chi mi vuol bene.
Ho avuto l’amore di poeti e artisti, sono diventata palcoscenico, teatro, museo, tempio. Custodisco musica, arte, poesia, storia. Sono nell’occhio di pittori, fotografi, registi, nella memoria di migliaia di telefoni, ma più d’ogni altra cosa sono parte del cuore di chi qui ci è nato e alzando lo sguardo verso i miei spalti si sente a casa, non imprigionato, ma abbracciato, non isolato, ma consegnato al mondo da una terra che sa aspettare il suo ritorno e lo attende paziente scrutando dall’alto della sua Rocca.
Perché io proteggo.
Soncino, 17 gennaio 2021, Anna Martinenghi