"Il fantasma, l'eterna illusione" Fausto Lorenzi | ||
per ascoltare il saggio... voce narrante Elena Guitti | ||
Bisognerebbe sempre stare all’erta quando si guarda una fotografia. Cercare di vedere chi sta arrivando, anche se viene avanti di nascosto. Con il progetto Castelli, fantasmi, leggende Salvatore Attanasio tenta di dare un’anima fantastica e romanzesca alla fotografia. C’è un eccesso di visibilità, oggi, in immagini ultra o iperrealiste che in realtà non aiutano a vedere. Più l’occhio s’affissa, più si fa straniante. Si rischia di perdere l’alone che accompagna le figure, gli oggetti, i luoghi. Quell’alone è un riverbero di memoria, di vissuto: il mistero che custodisce è necessario perché esista un reale.
Attanasio viene da una consolidata esperienza di fotocamera idealmente rovesciata a captare un proprio movimento interiore, tra baluginii, bagliori e intermittenze del cuore. Così ha tessuto spesso una trama di emozioni e desideri, di incantesimi e miraggi: dapprima in architetture limpide e chiare, poi sgranate, solarizzate o abbuiate, finché non restavano che tracce disegnate a cui ancorare nebulose vibranti, trepide nel liberare l’energia del colore; per approdare nelle Variazioni sul tema a una sorta di moto perpetuo della visione, in tacche danzanti spinte a incalzare insieme l’occhio e la fantasia in luci cangianti e iridescenti. Quei balli di motivi arabescati erano già evocazioni oniriche.
Ora, nel ciclo ispirato da Castelli, fantasmi, leggende, le immagini di questo fotografo sono elaborate sulla base di una vera e propria sceneggiatura, come fossero ideate per un set cinematografico. Di un film melodrammatico, sentimentale, sognante, piuttosto che di un thriller con suggestioni cupe e terrifiche da gothic novel. Sembrerebbe interpretare una celebre sentenza di Roland Barthes, che la foto è il ritorno di un morto, di qualcosa che è stato: ma in queste storie di ambigue presenze, legate a memorie trascese in leggenda nella notte dei tempi, diventa soprattutto la ricerca di qualcosa che è fugacemente passato, che si è materializzato ed è svanito al contempo, sicché il fotografo parrebbe piuttosto assecondare la concezione moderna delle immagini che si formano riflesse nella coscienza, a sondare una realtà memoriale costruita dal tempo interiore.
L’autore trattiene in una finitezza tanto puntigliosa quanto rarefatta presenze che paiono suscitate da battiti di luce, da sussulti di paura e da sussurri di sortilegio e rimpianto. La fotografia è una superficie che non potremo mai attraversare, eppure muove da un’analogia con un istante di vita: nelle stanze e corti dei castelli di Attanasio non si entra in uno spazio misurabile con sole coordinate storico-geografiche, ma emozionato dalla geometria del cuore, dallo slittamento e proiezione dell’immagine nell’interiorità carica di affetti, favole, fantasticherie, letture storico-romanzesche.
Un’idea di mura castellane come quinte di un teatro dello stupore e del meraviglioso che accoglie uno spazio fluttuante tra pulsazioni e fosforescenze di fenomeni medianici, o persino di abbandono a una infantile beatitudine, nel soffice lucore di sogno, per un cuore rimasto fanciullo che altro non chiede che di schiudersi ancora al mondo tra sarabande di fate e folletti ridestati da una antica infanzia incantata in campagne, boschi o luoghi isolati da esplorare avventurosamente. Il tutto rievocato attraverso la scrittura -perché tale è, con la luce- di fantasticare torpido e assorto, dove tutto è rivissuto in una simultaneità di mistero e coscienza.
L’arte è questo voler serbare nello sguardo qualcosa che fugge e trapassa. La foto non è calco, ma luogo di resistenza, monologo interiore che tenta di trattenere l’umore di luce tra corpo e assenza. Una ricerca sul disperdersi, o non annodarsi mai in una trama, della storia di tante esistenze cinte di alone leggendario, che fa trascendere in apparizioni antiche tragedie, soprusi, tentativi di sottrarsi a un’avversa fortuna o viceversa desideri impossibili. Al fotografo servono i contorni, i fuochi fatui di quei pesanti fardelli di vissuto. La luce naturale netta e chiaroscurata, ma densa come un alito tiepido, una malìa affettuosa e protettiva nel custodire queste epifanie più sfumate ed evanescenti, diventa la cifra del progetto, che prova a sciogliere la forma della visione in mormorii segreti, bisbigli fiabeschi e trascrizioni mitologiche che guidano verso territori dell’inconscio, senza pretendere di ricondurre l’inconscio a una spiegazione.
Scivolando con l’occhio, come raccontasse moti del cuore, prova a fare della sua fotografia un linguaggio proprio dell’esperienza del sentire, del flusso di sentimenti che fa la vita, e che non può che essere un baluginare enigmatico, una figuratività fantasmatica. Ecco che, inquadrate nella meticolosa architettura dello sguardo di Attanasio, le fughe di stanze castellane, porte e finestre come quinte sceniche, nel contrasto con l’apparizione di artificiosa illusione si rivelano un labirinto di relazioni elusive e perturbanti, fascinose e mesmeriche da cui lasciarsi attrarre come Alice verso il Paese delle meraviglie, in un cammino sospeso tra avventura fantasy e irretimento romantico.
Il set da Hotel Fiction ci chiarisce come Salvatore Attanasio si metta allo specchio della fotocamera come se aprisse un cassetto delle fantasticherie. Attento a ciò che rende visibili le cose che non lo sono. Il termine fantasma ha valore analogo al latino monstrum: portento, fatto strano, insolito, oltre che soprannaturale. Qui, più che puntare su effettacci e istrionismi, pur attingendo anche a storie e leggende truculente, si basa su enigmatiche vicende di spettri eterei e inquieti, ma soprattutto sulla convivenza favolistica di uomini e prodigi, tutti impastati della stessa sostanza morale, a raccontare l’appartenenza a un mondo senza confini tra visibile e invisibile, tra naturale e soprannaturale. Anche certe luci più sfrangiate sembrano suggerire la smarginatura, lo sconfinamento oltre i limiti dell’esistenza quotidiana.
Facendo riferimento all’immaginario popolare legato ai castelli, il fotografo allude a leggende specifiche dei vari contesti, a precedenti storici travisati nei secoli in ciarle e fole che hanno concorso a creare la mitologia locale, il fascino seduttivo o repellente dei castelli. Come nel teatro classico, i fatti turbinosi o patetici sono allusi e vagamente rievocati, ma si svolgono in gran parte fuori scena, perché le leggende fotografiche di Attanasio sono abitate dalla nostalgia di una incolmabile distanza. Se è vero -e si torna alla citazione di Roland Barthes davanti alle foto dei genitori scomparsi- che nell’ombra fotografica si concentra l’emanazione di un reale passato, ma solo per chi può recuperarlo attraverso una tensione affettiva, ecco che l’autore, evocando quell’alone arcano, si fa intermediario di esistenze a noi estranee e mute, in nome di un’arte del salvare dal nulla, del suggellare ricordi nel loro sperdimento, nel loro eterno enigma.
La foto è prosciugata in una polvere di luce che fissa il passato in una illusione assorta: l’idea di non poterla mai possedere, quella vita, così vulnerabile sotto l’assalto del nulla, eppure così custodita nell’ipnotica, turbata dolcezza. Gli interni, le luci filtrate da porte e finestre sul fondo potrebbero far venire in mente certe lezioni della pittura nordica macinata nella luce. Quei maestri delle antiche Fiandre scoprirono come l’osservazione analitica del reale naturale non ne esclude un misterioso doppio quando si fissa in una impronta assoluta di luce, una sorta di astrazione.
Quel che cerca allora l’autore, dietro un più facile effetto di sorpresa fantasy, è il turbamento del pulviscolo luminoso, come un’indole interna all’irradiazione luminosa. O, se volete, un delicato o inquieto ronzio della luce che lui emblematizza nel fantasma, avendo ben presente che noi vediamo attraverso quella polvere o luce mescolata di oscurità (il tempo che ha inghiottito vite e verità storiche, che non può che essere fantasticato).
Il mistero è partecipe dell’osservazione della realtà: è, per così dire, la sua luce interna, che è elemento strutturante della visione, nella catalogazione minuta del reale che esplora anche lontananze avvolte in atmosfera palpabile, nell’infinità dell’eterno esistere.
I fantasmi suscitati da Attanasio non sono altro che motivi, nell’esecuzione di una partitura esatta tra luce e ombra, desunti dall’esattezza della luce e perciò veri perché nella forza di suggestione di un pathos naturalistico che s’associa a stati di allucinazione, di piccola estasi, si fanno palpito di una più profonda intimità psicologica e spirituale.
Senza sottrarsi al gioco del paradosso, dell’ironia, dell’eterna illusione.
Brescia, gennaio 2021, Fausto Lorenzi