la dama bianca di Padernello - castelli-fantasmi-leggende

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La vera storia della "Dama Bianca" di Padernello
per ascoltare la leggenda...
voce narrante Marco Tramontano
Correvano gli anni del secolo Decimo-quinto. Uno di questi, nello scorrere via, aveva dato i natali ad una dolce creatura. Era figlia del conte Gaspare Martinengo, uno dei due eredi di quell’Antonio I° Martinengo che il 7 marzo del 1443 venne infeudato delle terre di Gabbiano. Era questa la ricompensa che la Repubblica Veneta benevolmente offriva al condottiero per i suoi servigi e successi militari. Anche Gaspare, figlio di primo letto di Antonio e della nobile Nostra Boni, diventò un valente e temuto condottiero. Nota era la sua forza fisica e il carisma indiscusso di grande capitano d’arme. Antonio Martinengo, morto sicuramente il 14 settembre del 1473, lasciò al figlio Gaspare - che per la verità protestò non poco per il testamento redatto dall’inflessibile padre che secondo lui aveva favorito nel testare il fratello Bernardino, nato invece dalla nobile veneta Lelia di Andrea Quirino – un bel palazzo a Brescia dove il soldato visse con i quattro figli che la storia ufficialmente registra: Lodovico, Scipione Maria e le due figlie Cecilia e Chiara. Ma pare proprio che il condottiero avesse anche un’altra figlia, morta giovanissima e un anno prima della fine del padre.
Bianca Maria nasce in questo palazzo, oggi scomparso, sito in via Palazzo Vecchio.

La bambina era deliziosa come raramente la natura si diverte a plasmare le sue creature. Aveva la pelle candida come i petali del gelsomino e gli occhi avevano il colore del più profondo ghiacciaio delle Alpi. Cresceva bella a tal punto che, sulla soglia della giovinezza, era già stata chiesta in moglie da una schiera di nobili e incantati pretendenti. Ma a Bianca la cosa pareva non interessare. Nella città di Brescia non si parlava d’altro che dello “strano” e misterioso fascino della “bambina pallida”. Ma Biancamaria sembrava ignorare anche questo. Della potenza e influenza di suo padre, della ricchezza della sua famiglia, dei gravosi fatti che intorno a lei la storia consumava verso la fine di quel secolo tormentato che l’aveva vista nascere, Bianca pareva nemmeno accorgersene. Per la verità la nobile bambina mal celava l’insofferenza che sentiva nei confronti del suo tempo: così rude, spesso cupo, sempre brutale. Bianca avrebbe preferito nascere in un momento diverso, lontano da quel frangente d’epoca che il destino aveva scelto per lei. Del suo tempo apprezzava solamente l’immacolata bellezza della natura che però aveva solo intuito lasciandosi guidare dalla sua inusitata sensibilità e immaginato al di là di quelle “invalicabili” finestre strombate del palazzo che abitava. Della bellezza della natura aveva avuto sentore origliando certi discorsi fatti nella “sala rossa” da alcuni forestieri che avevano raccontato di fantastici artisti fiorentini che cercavano di imitare la “dea Madre” servendosi di una nuova tecnica pittorica imparata d’oltralpe, al nord, dai colori brillantissimi …
Biancamaria mal sopportava anche la vita di quella città fortificata, dalle mille torri arcigne, intrisa di violenza, paure, angherie, ricca di armature sin troppo lucenti non di rado trafitte da bagliori frequenti di lame assassine.
Il fascino di Bianca era grande quanto precaria la sua salute che verso la fine di quella primavera parve perderla. Allora i folti capelli che aveva nerissimi e che, si narra, Bianca riusciva a pettinare ora a boccoli, ora levigandoli e rendendoli lisci come i marmi preziosi scelti per quel mausoleo che suo zio Bernardino si stava facendo costruire per raggiungere l’immortalità tra gli uomini, nascondevano un volto sempre più pallido, una espressione sempre più triste e sconsolata.
Si affannarono e sostituirono sotto i talamoni del grande portone di casa Martinengo i più noti dottori della città. Vennero chiamati anche valenti scienziati abili nell’arte del curare i mali del corpo dalla lontana, ma ormai imperante, Serenissima Venezia.
Ma Biancamaria era sofferente nello spirito e se il corpo declinava era solo perché assecondava e in certo qual modo subiva la volontà della parte migliore e più forte di quell’essere: tanto fragile, tanto gentile che il contrasto con il suo tempo risultava così apparente e alto da innamorare! Pareva Bianca, con quell’armonico e minuto corpo leggiadro che conosceva gestualità dolcissime e possedeva mani esili, sempre fredde, solcate da una fittissima trama di vene palpitanti sensibilità, creazione fuori dal tempo, cosa astrusa alla sua epoca a tal punto da coglierne tutte le contraddizioni. Lei, la giovanissima dama, era fuori dal contesto, dal solito, dal conosciuto, dal plausibile. Pareva creatura nata da sempre e per sempre, per quel mondo del positivo che c’è e che proprio per questo contrasta e stride con tutti i tempi della storia. La cagionevole salute di quel “fiore” la cui parte migliore della corolla rimaneva nascosta ai più, incominciò a preoccupare anche suo padre. Il conte Gaspare, che si era da alcuni anni ritirato dalla vita militare e abitava nel suo palazzo di Orzinuovi, presso la porta Mignaniga, vista l’impotenza della medicina e l’inutilità delle cure prescritte, si risolse a mandare la figlia dalla città, dove ancora abitava, in campagna, presso la bellissima casa-Castello che il fratello di lui, Bernardino Martinengo, aveva appena finito di costruire al centro del suo feudo, laggiù tra i boschi della campagna dove all’epoca, e non di rado, si sacrificava ancora alla fertilità del suolo. Il contado si estendeva a nord sino a vedere la porta di San Giorgio posta a difesa della fortezza orceana. A sud lambiva le selvagge sponde del fiume Oglio. La località si chiamava Padernello e il castello che si rispecchiava nelle acque del fossato era favola vera. Boschi immacolati,  e in certi punti folti a tal punto da intimorire, lo circondavano come in un assedio, querce dalle dimensioni enormi e dalla “saggezza” grande accumulata tra le pieghe rugose della corteccia lo proteggevano. La ricchezza d’acque poi della zona assecondò lo sconosciuto architetto che progettò il maniero, allorquando lo pensò emergere dall’acqua e appoggiato su di una possente fondamenta a scarpa. Il fossato prendeva acqua dalla roggia Fiumara per poi costringerla in gora a muovere le pale di ben tre ruote di un mulino che lo stesso caporamo dei Martinengo di Padernello, Bernardino, aveva voluto costruire ad un tiro di archibugio. L’acqua poco più in là cadeva a “svegher” lungo uno scosceso ombroso a formare un acquitrino popolato di voci in concerto. Intorno al castello era andato nascendo anche il borgo con la Chiesa, le case dei contadini, il forno appollaiato sopra una roggia, la posteria, la vigna… un paesino ameno, prospero, autarchico, che viveva all’ombra del castello e per il castello.


Biancamaria arriva a Padernello in un giorno freddo del novembre inoltrato dell’anno 1479.
Doveva avere, se la storia non ci inganna, tredici anni. Ma il soggiorno di Bianca tra le mura giovani della dimora dello zio Bernardino doveva essere breve, molto breve…

Ancora prima della fine dell’estate la vita di Bianca si spegneva. Narra infatti la leggenda nata poi intorno a quei fatti che il giovane fantasma della ragazza ricompare nel castello. La Dama si mostra ogni dieci anni, la stessa notte della sua morte avvenuta nell’afoso mese di luglio dell’anno 1480. Si mostra vestita di bianco e reca in mano un libro aperto, tutto d’oro. Il volume pare veramente prezioso, ma non perché realizzato col giallo metallo, ma perché tra le sue pagine sta scritto il segreto del fascino della “Dama Bianca”… un fascino irresistibile, creato da una natura particolarmente compiacente, ma costruito giorno dopo giorno, senza sprecarne alcuno. Sopra a quei fogli il segreto di una vita rara, controcorrente: un credo misconosciuto dagli uomini cosiddetti “normali”, una filosofia che solo pochi riescono ad intuire, a cercare e poi, in parte, a sperimentare e godere. Gli altri, tutti gli altri, si limitano a girare intorno a queste creature che paiono sordi, ciechi e ottusi… E se è vero che questi “esseri” è difficile incontrarli perché rari, è altresì vero che spesso chi ha la fortuna di mescolare il proprio destino con queste dolcissime creature non sa nemmeno cogliere l’opportunità concessa.
Biancamaria andava a cercarsi un ricordo assopito tra il profumo dei fiori; sapeva rievocare dentro di sé una nostalgia ogni qual volta lo desiderava; amava i pensieri perché li sentiva come “acceleratori di vita” verso una meta ancora vaga ma l’unica che valesse la pena di conseguire.
Spesso si alimentava di sogni e si dissetava solamente con gocce di pura rugiada. Non aveva mai inquietudini banali: la tristezza, semplicemente, era dentro di sé come il caldo nel sole. Amava ogni forma di vita, ogni stelo d’erba la emozionava. Sentiva le stagioni più degli uccelli migratori; prediligeva angoli appartati dentro i quali si intersecava quale modulo perfetto, come tessera di mosaico che aveva ritrovato il giusto posto nel grande disegno del mondo. Era, Biancamaria, immersa in quell’armonia del cosmo che il suo tempo invece aveva dimenticata, affannato com’era a rincorrere l’effimero…
Questo il mondo della dolce ragazza: un modo di esistere non compreso, non condiviso ma invidiato. Tutto questo stava nel profondo del suo essere, in questo credeva Bianca, non conosceva altra verità. Ma non aveva ancora sperimentato il contatto fisico con tutto quello per cui viveva ed era nata. Per lei, ancora, le fantasticherie erano “macchiate” dal dubbio del non sperimentato. I suoi innamoramenti non consumati. Era talmente mistico l’amore sentito che il suo pur meraviglioso stato corporale si trasformava giorno dopo giorno assumendo forme e sapori di una bellezza indicibile. Quanto ancora in Bianca rimaneva di umano veniva di giorno in giorno contrastato, sconfitto, vinto.

E proprio per questo l’arrivo a Padernello la uccise.
Qui la nobile adolescente incontrò fisicamente l’amore.

Il viaggio l’aveva sfinita nel corpo, l’incontro con le bellezze naturali di Padernello l’annientarono dentro. Provò ogni immaginabile ebrezza dall’alto del mastio, mentre lo sguardo spaziava tra le vigne, i boschi e la campagna. Il fossato sotto di lei pullulava di vita e Bianca non riusciva più a frenare il faticoso dono dell’amore. Voleva darsi a ogni cosa con uguale intensità e soffriva quando si rendeva conto che le sue manifestazioni d’affetto non erano abbastanza sublimi, all’altezza del desiderato. Avrebbe voluto volare in quelle gelide e terse notti di Padernello, avrebbe voluto trasformarsi in una minuscola creatura per potersi appollaiare sui rami più piccoli degli alberi, mulinare col vento burlone che giocava sul ghiaccio del rigido fossato. Avrebbe desiderato diventare bolla d’aria per tuffarsi nelle acque e accostarsi alle salamandre in letargo. Ma Bianca aveva ancora un peso: era il suo corpo che pure trasfigurato, ormai, non la lasciava partire. Era pesante, ancora troppo pesante. La sofferenza per questo suo stato intristiva sempre di più il suo spirito felice. Arrivarono anche i primi fiocchi di neve sulla campagna. Padernello diventò muto. Il silenzio intorno stordiva. Una notte Bianca sognò di essere un fiocco di neve e provò, dopo aver girato intorno ad una torre del castello, ad adagiarsi dolcemente ai suoi piedi, sul fossato ghiacciato, tra altri soffici fiocchi che la chiamavano, la desideravano, la volevano tra di loro. Indescrivibili furono le emozioni del contatto.
Ma Bianca era pronta, nonostante la favorevole condizione al confine tra umanità e spirito, ad incontrare il sogno? Quando questo arriva anche chi lo ha disperatamente desiderato, cercato e ha in lui fermamente creduto, spesso, si trova impreparato.

Passò l’inverno.
La primavera era ormai calda. Biancamaria quella sera si era posta a cavalcioni tra i merli della finta camminata di ronda del castello e guardava lontano. Man mano che il suo sguardo accorciava il campo visivo, Bianca scopriva meraviglie vicine. Ma tra tutte le creature della natura vere e create dalla sua fantasia che aveva incontrato o immaginato di incontrare, non si sarebbe mai aspettata di vedere, volare sopra le acque nere della notte, una piccola magia luminosa. Poi un’altra, e un’altra ancora.
Vibravano queste luci come fuochi lontani, tra le foglie, poi sparivano per ricomparire più luminose vicine. Bianca si sporse per poter vedere meglio. Le strane creature parlavano e parlavano di cose capitate lontano. Bianca impazzì di gioia. Senti, finalmente, di potersi liberare nell’aria. Ci provò. Ma mentre si staccava dal “dubbio”, provò paura. Cadde nel fossato del castello di Padernello. Non provò freddo, non dolore. Solo il rimpianto perché nel volo non era riuscita ad avvicinarsi a quelle luci bianche.

Così finì Biancamaria, affogata senza nemmeno sapere che aveva immolato la vita per delle piccole lucciole.
Il perché il suo fantasma vaga ancora? Perché la Dama vuole rivelare il suo segreto che sta scritto sul libro che reca in mano.
Ma a Padernello, la Dama Bianca, non ha ancora trovato nessuno che si sia degnato di starla ad ascoltare.

Gian Mario Andrico
per gentile concessione dell'autore che ne ha consentito la pubblicazione
editrice: La Compagnia della Stampa, 2006, III edizione
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