Gli Otisi nella Casa del Podestà | ||
Se l’ingratitudine è in ogni contingenza della vita la più odiosa delle umane imperfezioni, ben a ragione puossi affermare che essa discende al livello di vero e proprio delitto, allorchè, ridonato che sia ad un uomo al massimo d’ogni bene egli dimentichi o disconosca chi glielo procurava, e invece di aprirgli i tesori dell’animo suo, glieli chiuda dinanzi freddo, gelido, implacabile come un avverso destino di siffatta orribile faccia, non sarà mai che si macchi un buon olandese come Hans Fettbein, l’autore di queste memorie, il quale a perenne ricordo del proprio grato animo verso l’illustre professore in Otoiatria Dottor Carlo Tagliaferri di Brescia in Italia, i tenui frutti della propria Intelligenza e delle proprie ricerche offre, dedica ed intesse in una corona la quale, bellamente avvinta alle bacche dell’alloro onde già fregiati il capo del benefattore, mostrar debbe ai con temporanei ed ai futuri quanta sapienza e virtù lo rendano degno di quegli illustri antenati di cui l’autore imprende ora a narrare la genealogia e le gesta gloriose.
Racconta una saga nordica come Thor, il Dio tonante, s’incontrasse con Fridehilda, la ondina dalle chiome tanto lunghe che dal Capo Steinhorn potevan giungere fino alla foce dell’Elba, là sotto le nere rupi dello Schwargeisenfels nelle notti in cui la luna nascondevasi dietro le nubi minacciose e il mare muggiva cacciando contro gli scogli le creste chiare delle onde e i bianchi icebergs simili a fantasmi. Da questi amori di Thor e di Fridehilda nacque sullo Schwargeisenfels l’eroe Hauteisen forte e potente come un dio il quale con un colpo d’ascia poteva spaccare la ferrea coccia nativa. Per straordinarie imprese ebbe nome questo semidio per centinaia e centinaia d’anni sopra tutte le terre del Nord. La stirpe che dicevasi discendente da lui conservò per soprannome il nome suo e fece poi parte di quella tribù dei Vimmili che staccatasi dalla Scandinavia pose prima le sue sedi tra l’Elba e il Reno e chiamossi poi gente Longobarda. Di questa schiatta furono gli eroi Anspaino, Namalchi, Leterio, Amàtari e quell’Arparisendo che tanto di distinse nell’assedio di Pavia, al seguito del Re Alboino nell’anno 570. Tutti questi personaggi e la stirpe loro conservarono il primitivo soprannome germanico di Hauteisen, anzi, fermò il soggiorno loro in Italia furono chiamati colla traduzione più o meno letterale di quello che sono nel volgare eloquio coì: scindi, squarcia, spacca maccaferro ed anche tagliaferro.
Figlio del suddetto Aparisendo fu Turismondo il quale salì nelle armi a tala rinomanza e fu di così gigantesca natura da essere chiamato il Taglia ferro per eccellenza. Egli si segnalò prima nelle battaglie contro gli Avari e poi sul termine sua vita (perché pari avea l’ingegno ed il valore) divenne uno dei più valenti estensori del famoso editto di Rotari: la sua famiglia toccò in questo tempo un tale apogeo di gloria che la figlia di Maccaferro medesimo, Isenunta, andò sposa ad Adaloaldo duca di Spoleto. Ma la fortuna dei Longobardi declinava e il dramma dovea avere il suo triste epilogo in Pavia ed in Verona: la casa degli Otisi o Maccaferri seguì le sorti del regno. Rachi 2° combattè fino all’estremo al fianco del principe Adelchi indi gli fu compagno nella fuga e nell’esiglio. Morto Adelchi, e dispersa e sottomessa da Carlomagno la regione Longobarda egli fermò la sua dimora sulle più alte balze di Valle Decia e da questo nido con un manipolo di forti compagni egli e la sua discendenza seppero creare non lievi imbarazzi ai Franchi padroni d’Italia.
Questi Otisi vissero secondo la legge longobardica e non accettarono la salica che più tardi. Per un lungo periodo di tempo tace la storia di questa Famiglia come di quella che sdegnosa s’era ritirata dalla vita pubblica onde non essere obbligata a rendere omaggio agli oppressori della propria nazione, e solo parlano le cronache della Valle di un lungo ordine di personaggi che risiedettero come signori di libero allodio, alcuni anche troneggiandovi mai i più rendendosi chiara nella difesa di quel piccolo paese e nei commerci esercitati volta a volta in lontane regioni. Rimonta al 1187 la notizia di un Azzolino Otiso o Taglia ferro figliuolo di Benetino 2°, il quale, avendo seguito Federico 1° Barbarossa nella seconda crociata di lui, fu ferito sotto Isernia, si fermò poi nella Siria e quivi arricchì smisuratamente esercitando la mercatura finchè, avendo stretta relazione con parecchi veneti che erano colà per la medesima cagione li seguì carico d’armi e d’oro in Venezia ove pose sua stanza e fu stipite di quel ramo della famiglia che vi conseguì più tardi il patriziato. Che dire della rettitudine di Opizzo Signore di Campello, di Gendozza, della pietà di Durante, di Prospero, di Varmozza, della attività di Eupreria e dei due Bartolommei?
Coetaneo a questi ultimi, ma del ramo veneto della stirpe fu Isèpo, nato in Venezia nel 1530 e mancato ai vivi colà nel 1591. Già la sua famiglia era stata ascritta al Libro d’oro con Almorò suo bisavolo nell’anno 1432 ed egli ne accrebbe lo splendore colla eloquenza in Senato, colla sapienza nelle cariche pubbliche, colla precedente e fine diplomazia adoperata nella triste missione che a lui giovane di vent’anni affidò la stremata Repubblica, quella cioè di firmare coi Turchi i negoziati di pace del 1540 cedendo loro Napoli e Malvasia nel Peloponneso. Altro insigne magistrato veneto fu Otisello figlio di Enzo 2° pronipote di Isepo suddetto. Fu dei Pregadi 1 e andò Procuratore di S. Marco nella Patria del Friuli.
Coi figli di Bartolommeo 2° si delinea un’altra suddivisione nei rami della Famiglia, poiché, mentre due di essi Azzo e Rigozzo stabilirono lor dimore in terre italiane e cioè il primo in Bologna e l’altro in Clusone, il secondogenito Lanciotto migrò in Ispagna e precisamente a Valle Dolid, quando consolidato il predominio spagnuolo in Italia col Trattato di Castel Cambresì, il ditto Lanciotto andò Oratore a Milano per conto della sua Valle presso il governatore. Colà s’accese della bellissima Pas de Corada y Coraçon figlia del Governatore stesso la sposò e la seguì poi al paese di lei. Troveremo più tardi due personaggi che, più di ogni altro di questa branca, la illustrano. Intanto dobbiamo parlare del figlio di Azzo 2° il Bolognese, Borso, il quale, abbracciato lo stato ecclesiastico e già vescovo di Netri a 25 anni, prese parte alle ultime sessioni del Concilio di Trento cioè dal 1558 al 1563. Egli vi si occupò di capitalissime questioni, quali: de clericis baculo non percutienis; de migro samide ac pileo; de dapidus in visitatatione episcoporum; de regulis ne paraechiales congregaziones in paciatorias converti possint; de pespetus sub conditione permittendis. Chiamato all’onor della porpora da Papa Pio V col titolo di S. Giorgio in Velabro, fu del successore di quello, Gregorio VIII Inviato nunzio a Madrid, indi nelle Fiandre nel tempo difficilissimo della rivolta di questo paese. Vi si comportò da accortissimo diplomatico e lasciò la vita in Bruxelles li 18 marzo 1598, dopo 28 anni presso la Nunziatura. Di lui presentiamo il ritratto e un autografo, il primo si potè ricavare da un quadro ad olio del Caravaggio che si conserva nella R. Pinacoteca di Bruxelles, ed il secondo mi fu favorito come minuta di nota diplomatica dalla Cancelleria del Nunzio nel Belgio.
Pure del ramo bolognese è Folco, insigne poeta, il quale per la robustezza dei concetti, per la scorrevolezza del verso, per la limpida quasi direi argentina vena poetica fu detto il secondo Tasso, a più di questi fortunato di ebbe gli onori del Campidoglio. Glieli valse specialmente il suo poema intitolato Antentomo 2 machia cioè guerra degli insetti coi fiori di cui diamo un frammento salvato per miracolo dal Mommsen in un incendio di Roma e da lui favoritomi. Scrisse ancora: I Carmi (Odi Saffiche, anacreontiche, didascaliche), il pometto giocoso Il Ferro, e tradusse i Paralipomeni di Lucio Pomponio Bos.
Non meno chiaro fu il ramo cosidetto Decio per essere rimasta nella patria valle sino all’epoca di cui discorremmo. Nel 1540 Rizozzo assunse per divisa le parole: aedificando surrexi, per grido di guerra: coede, coede, ferrum! e per stemma lo scudo degli avi suoi cioè: di rosso a un cavriolo d’azzurro caricato d’una spada d’oro in pala, al capo d’azzurro a tre stelle d’argento in fascia. Tutte queste cose gli furono legalmente confermate con Diploma rilasciatogli dalla Cancelleria Imperiale li 8 aprile 1541.
Il figlio del figlio suo Vitellozzo, a nome Lionello detto il Conte di Campelli abbracciò la carriera delle armi, si pose giovanissimo al soldo di Venezia e divenne eccellente condottiero. Si raccontano di lui tante e così lodevoli imprese nella guerra contro gli Uscocchi che sarebbe troppo lungo il narrarle. Fu per poco Governatore di Malamocco e là in una casa che dicesi essere stata la sua rimane un ritratto di buon autore che il suo nome scritto a tergo ci conferma essere di lui. Un altro ritratto la cui riproduzione da una tela esistente nell’Escurial ci fu procurato da un gentiluomo Spagnuolo che brama serbare l’incognito rappresenta Don Guritano Cavaliere di Calatrava e Grande di 1a Classe, membro del Ramo Spagnuolo degli Otisi già menzionato e pronipote di quel Juan Consalva, che è nominato come suo cugino dal Cardinal Borso nel suo autografo. Fu intimissimo di Filippo 2° e sotto il sucessore di lui represse le rivolte di Catalogna e di Sicilia siccome ferreo governatore di quelle provincie. Il figlio suo Don Rodrigo fece frequenti viaggi nel Messico, dove per una strana combinazione troveremo molto più tardi un illustre discendente di lui.
Ci conviene ora tornare alle primifere balze di Valle Decca per ritrovarvi i figli di Lionello, condottiero d’armati. Essi sono mirabilmente tra loro concordi e tutti dotati di straordinarie qualità. Mentre Giovanni e Federigo dividonsi fra loro possidenze e giurisdizioni di Valle Decia, e Bormio, dove aveano maritata la sorella Torquata, Cosimo e Dosso spingono i loro studi matematici fino ad altezze vertiginose, trascendentali: il primo si dedica specialmente all’astronomia, alla meccanica, all’architettura, in cordiale corrispondenza col gran Galileo e conosce il Torricelli, il Malpighi il Redi, il Megallotti, il secondo eccelle nella chimica e, com’era andazzo del tempo, si perde nei vaneggiamenti dell’alchimia e delle scienze occulte. Abbiamo di lui moltissime opere, fra le quali, eccellenti: unicum principium vitae cum Crysophoria commerum; De analogia sanguinis, lymphae plantarum et auri; nec non de renovatione al conservatione humani generis. Da un frammento di un suo diario, che assieme alla copie d’un ritratto di lui abbiamo potuto avere da un antiquario di Bergamo, ci appaiono parole che ci fanno stupire, comechè sia ovvio lo interpretarle nel senso, che prima d’ogni altro Messer Dosso avesse divinato la forza del vapore. Codesta potenza fino alla sconosciuta e che dovea portare una sì grande rivoluzione nei rapporti umani un secolo e mezzo di poi, mi suggerisce per analogia alla proprietà sue, un paragone che dettaglio alla gente illustre di cui tengo parola: in questa pure riscontranti, per dir così, la espansione e la condensazione. Infatti mentre Giovanni 1° fratello dei grandi fisici, potrebbe rappresentare la seconda sol seggio e tranquilla soggiorno di Valle Decia ove egli e i discendenti suoi accrebbero lustro alla famiglia, ben sarebbe da considerarsi qual campione della prima a Leone, figlio di Cosimo, il quale trapiantò sé e sua stirpe nelle lontane contrade della Scrizia. Diremo prima brevemente di Oberto figlio di quel Giovanni che, come avvertimmo di sopra preferì le natie pendici all’incanto di ignote regioni: dopo avere brevemente combattuto al fianco del Morosini nel Peloponneso trasse in patria e stanco della vita, nauseato della corruzione dei tempi, sdegnoso da una parte della spagnuola dominazione che putrefaceva nel vicino Sato di Milano addolorato dall’altra dal declino della Dominante si chiuse in un chiostro, lasciando al fratello la causa di continuare il nome. Da questo fratello infatti (Carlone) discendono i personaggi tuttora viventi: Oberto morì abate nel Monastero di Rodengo in Franciacorta di Brescia dopo aver governato la sua monastica famiglia con militare energia ed esemplare santità. Nella casa colonica che era stata in luogo dell’antica abbazia vedesi tuttora una effigie offuscata dal fumo, ma pure spirante maestà e fierezza.
Leone anzidetto figlio di Cosimo portossi adunque nella Russia e precisamente a Smolensk a scopo di commercio perché nel dominio della Serenissima non poteano i nobili esercitare la mercatura. Colà visse e morì nel 1693 e nulla saprebbesi della sua discendenza se suo nipote Basilio, pope della Chiesa Russa Ortodossa e Archimandrita a Ekatherinenburg in Siberia non avesse lasciato una specie di geneaologia col nome dell’avo suo, di suo padre e dei suoi nipoti e pronipotei. Il Sig Martino Von Lipeck passando da quel remoto paese rinvenne il ritratto e gli scritti di Basilio, seppe che esso morì in qualche odore di santità e portò copia die ello e le presenti poche notizie a me, studioso modestissimo di storia, ma felice di poterle qui trascrivere a maggior decoro della stirpe che mi sono dato ad illustrare.
Il principio del secolo decimottavo segna una epoca ne’ felice, né gloriosa per la patria dei Tagliaferri, tutto declina, tutto s’infiacchisce. Nessuna meraviglia adunque se alcuni rampolli della schiatta Otisa dimenticarono le virtù dei padri e seguono la snervante onda del tempo; fra codesti debbonsi purtroppo annoverare i figlie e pronipoti di Federigo fratello di Leone il Russo e non è che l’ultimo discendente loro il quale rifulga di vivida luce, ma di una luce per avventura falsa e corrotta e che non possiamo ammirare. Irrequieto e desideroso di novità, egli s’imbarca su un veliero in rotta per Smirne; or qua, or là nelle città di Levante
egli si fa conoscere e non in lodevole maniera; finalmente dopo molti anni giunge ai suoi parenti d’Italia la nuova che gli si è fatto musulmana. Dopo allora nessuno più riceve notizie di lui; senonché il Rambaldi nel suo viaggio a Costantinopoli fermò la propria attenzione sopra un ritratto che egli vide appeso in una Moschea della sultana Validè e che gli parve di pennello europeo. Chiese, s’informò e seppe essere quello il ritratto di Ricco Effendi salito poi agli onori del Pasciahato e insignito dell’ordine del Medidjè per aver dato qual favorita all’Haren del Sultano di Zanzibar Mohammed ed el Kafir la figlia sua Medina!
... Era quello Federigo, il discendente degli Otisi!
Il mutamento che si preannunciava dovunque l’alito di libertà che faceva fremere i difetti di nobili e di plebei prometteva di sperdere i nauseosi vapori di un suolo corrotto, attirò prima col suo dolce incanto, indi, fattori tempesta, travolse nella sua rapina anche la stirpe Tagliaferra che pur dovea per mille ragioni stare ligia alle tradizioni conservatrici. Anche nella Valle di Scalve penetrarono le nuovissime idee, e mentre in Francia filosofeggiavano i Rousseau, i Montesquieu, i Fontenelle, i Voltaire, nella tranquilla solitudine di Valle Decia scrivevano pensavano e discutevano acutamente un Giovanni, un Uberto, un Carlo, un Federigo tutti discesi dal primo Federigo fratello del grande chimico Dosso. E’ quindi naturale che, scoppiato l’uragano rivoluzionario, salita all’abbagliante meteora del Bonaparte, statuita la Cisalpina Repubblica, il più chiaro di questi figli della Valle fosse spedito da quei forti montanari quale loro rappresentante ai Comizi di Lione nel 1801. Tornato in patria morì il 19 maggio 1803. Diamo il ritratto di questo rivoluzionario dabbene come potemmo noi stesso riprodurlo dall’originale esistente nel Museo repubblicano di Lione.
Dobbiamo parlare ancora di un altro illustre personaggio che lasciammo per ultimo e quale chiusura del nostro racconto come quello che morì in una epoca vicinissima a noi cioè nel 1840, ottantaduenne, nella città di Messico. E’ questi Don Samuel del ramo Spagnuolo degli Otisi, discendente da quel Lanciotto che si stabilì a Vallodoli e nel secolo decimosesto Don Samuel su Generale dell’Esercito Messicano, Conte di Luba, Cavaliere dell’Ordine Suprema della Stella degli Incas, Commendatore dos Magacaciquos e della Croce del Sud, insignito del Crachat della Aquila ardente, gran Cordone della Virtù Ufficiale dos Caballeros blancas, della Langionera, Cavaliere della Freccia avvelenata degli Incas e dos Hidalgos formosas, insignito della Medaglia commemorativa di Don Alvaro de Mendoza di quella alla Bravura campale e delle altre della Voce di Piazza e dei valorosi di Carmencidad, nonchè della gran Fascia di Maresciallo delle sussistenze.
Don Samuel partì giovanissimo dalla Spagna per la Luisiana quando la Francia cedette questa provincia alla patria sua; egli fu incaricato di ricevere il giuramento degli abitanti di quella in favore del re Carlo 3° e fu ricompensato col titolo di Conte di Luba. Per quali vicende lo troviamo più tardi nel Messico? per quali cagioni lo vediamo noi comandare le truppe di un paese che egli dovea considerare come una colonia ribelle alla madre patria? Ci è impossibile rispondere a questi quesiti la cui risoluzione è nascosta dall’enorme distanza de teatro delle gesta sue; crediamo però di bene opporci argomentando che le ragioni che mossero Don Samuel non fossero che onorevoli e Sante, poichè un Otiso anche spagnuolo non può errare che per singolarissima eccezione, e d’altronde la buona, ed aperta e fiera immagine di lui ci sta mallevadrice che abbiamo dinnazi in un eroe ed un eroe onesto e glorioso. Il quadro che ci rappresenta Don Samuel, benchè pittura di poco valore sta sopra lo splendido mausoleo di lui della Cattedrale del Messico, mausoleo che si attesta le insigni dovizie da lui lasciate che si afferma essere andate disperse o devolute allo Stato perché infruttuose rimasero per la infinita lontananza le ricerche de’ suoi parenti di Spagna e d’Italia.
Non sta a me il consigliare a costoro di consolarsi poiché la loro virtù non ha d’uopo di consigli né la condizion loro può essere migliorata da un pugno d’oro; ripeterò piuttosto con essi l’avito grido di guerra: caede, caede ferrum! e il motto glorioso aedificando surrexi aggiungendovene di mio un altro che intende dimostrare come essi assorgendo in fama in stima e furono siano, e siano per essere di edificazione ai loro contemporanei: surgendo aedificavi
Hans Fattbein
e per traduzione e in copia all’originale
Fra Doretto da Calvisano
per gentile concessione della Fondazione Ugo Da Como
che ne ha consentito la pubblicazione